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March 4, 2025 7 mins
TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/8062

LA VERA DIFFERENZA TRA PSICOLOGO E CONFESSORE di Mauro Piacenza
 
È fuori dubbio che, nel recente passato, si sia vista un'esplosione del ricorso alla psicologia - e segnatamente all'aiuto degli psicologi - in tutto l'Occidente. Le vicende storiche della pandemia e dell'esplosione clamorosa e, in parte, inattesa dei conflitti bellici hanno, se possibile, ulteriormente aggravato la situazione, al punto da indurre non pochi Governi a offrire ai cittadini un "bonus psicologo" per poter così ricevere l'aiuto di specialisti capaci di ascoltare e di dare un nome al diffuso disagio delle persone.
Si potrebbe quasi dire che lo psicologo sta all'epoca moderna come il confessore stava all'epoca cristiana! Ma è davvero così? È sufficiente il ricorso allo psicologo per "risolvere" il problema umano? Colloquio con lo psicologo e dialogo della Confessione si equivalgono?
La risposta a queste domande è, senza ombra di dubbio, negativa. Pur riconoscendo il legittimo valore della scienza umana detta "psicologia", è evidente come essa non possa, in alcun caso, essere confusa con il sacramento della Riconciliazione. I due "dialoghi"-  quello con lo psicologo e quello con il confessore - possono avere alcune analogie, che proveremo a indicare, ma hanno certamente radici diverse e, soprattutto, esiti differenti.
UN GRANDE PARADOSSO
Il grande teologo ambrosiano, prematuramente scomparso, Giovanni Moioli, nel suo saggio Il quarto sacramento (Ed. Glossa), descriveva la Riconciliazione come il «sacramento difficile», proprio per l'esigenza imprescindibile del dialogo verace, intimo e personale tra penitente e confessore, necessario perché ci sia la materia prossima del sacramento e perché esso sia valido.
È fuori dubbio che l'apparente sostituzione della Riconciliazione sacramentale con il dialogo terapeutico affondi le proprie radici nella diffusa secolarizzazione del mondo occidentale; secolarizzazione che - è quasi un paradosso! - è anche la causa di tanto disagio sociale e personale dell'uomo contemporaneo.
In un contesto culturale nel quale Dio è espulso dalla storia o dalla società e, nel migliore dei casi, è relegato al sentimento soggettivo, la risposta alle domande fondamentali dell'esistenza diviene per lo meno ardua, se non impossibile. Se Dio non c'è, l'uomo si riduce a essere l'esito dei propri antecedenti biologici, materia un po' più sviluppata del resto della natura, ma nulla di più, solo materia. Nel contempo, anche la dimensione teleologica, la dimensione del fine della vita e del senso delle azioni umane, perde il proprio significato. Da questo contesto generale è solo possibile immaginare quale mole di frustrazione, anche psicologica, possa derivare, poiché tutte le azioni umane, anche le più nobili e alte, perdono di significato o, nel migliore dei casi, gratificano l'ego, in un cortocircuito nel quale la domanda mai sopita del cuore umano cerca sempre nuove gratificazioni e mai da nulla si ritiene appagata.
UNA SOFFERENZA SVUOTATA
Se a questo si somma la quasi totale censura di un possibile senso della sofferenza umana e della morte, il quadro appare drammaticamente completo. Se la sofferenza umana non ha senso, allora essa è da evitare accuratamente, senza eccezioni, a qualunque livello della coscienza e in qualunque stagione della vita. La contraddizione deflagrante è, tuttavia, che la sofferenza esiste e, semplicemente, non può essere evitata! Da qui l'ulteriore profonda frustrazione di una vita necessariamente frammista anche a momenti di sofferenza, che paiono non avere significato, inficiando così il senso stesso dell'intera esistenza. Al vertice di tale crisi di senso si pone, ovviamente, il mistero della morte, il quale, in un contesto radicalmente secolarizzato, viene sistematicamente censurato e, perfino, de-ritualizzato (
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