Castel d’Azzano, Verona.
Una famiglia contadina, un’azienda agricola strozzata dai debiti, un mutuo contestato e una lunga guerra con la giustizia civile.
È in questa spirale che si consuma la vicenda dei fratelli Ramponi, culminata il 14 ottobre 2025 con l’esplosione del casolare di famiglia e la morte di tre carabinieri.
Dietro l’immagine del “casolare della follia”, c’è la storia di un’Italia profonda: fatta di aziende rurali travolte dalle banche, di cavilli, aste giudiziarie e di una disperazione che, passo dopo passo, si trasforma in tragedia......
Per decenni, Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi hanno vissuto e lavorato nella loro azienda agricola alle porte di Verona.
Campi, bestiame, frutteto: un’economia semplice, legata alla terra e alla fatica.
Ma già dagli anni 2000 la famiglia inizia a scivolare nel baratro dei debiti.
Nel 2014, la sottoscrizione di un mutuo ipotecario diventa la pietra d’inciampo: secondo la loro versione, le firme sarebbero state contraffatte, e da lì sarebbe partita una catena di pignoramenti e aste che li ha privati di ogni bene.
Nel giro di pochi anni perdono terreni, macchinari, allevamenti.
Resta solo la casa, ultimo baluardo, simbolo di una resistenza non solo materiale ma esistenziale.
I Ramponi non si arrendono. Parlano di “furto giudiziario”, denunciano pubblicamente l’ingiustizia del sistema, accusano banche e avvocati di averli traditi.
Nel frattempo, la loro vita si fa sempre più difficile: secondo i vicini, da mesi vivevano senza luce, senza riscaldamento e senza acqua corrente.
Una coppia che abita poco distante racconta:
“Non avevano più niente. Niente elettricità, niente acqua. Di notte si vedeva solo una lampada a batteria, a volte una candela. Maria Luisa scaldava l’acqua su una stufa improvvisata nel cortile.”
Altri aggiungono che spesso lavoravano al buio, “come in una grotta”, e che la casa era diventata un rifugio di fortuna, chiusa al mondo e piena di rancore.
Una condizione estrema, che spiega l’isolamento e la tensione cresciuta nel tempo.
Nel 2021 iniziano i primi tentativi di sgombero. Gli accessi dell’ufficiale giudiziario vengono rinviati, rimandati, sospesi. Ma la tensione cresce.
Nel novembre 2024, la situazione esplode per la prima volta: Maria Luisa Ramponi, in un video diventato virale, dichiara di aver “riempito la casa di gas” per impedire che venisse eseguito lo sfratto.
È un grido disperato contro un potere che sente ingiusto, un gesto che anticipa la tragedia.
Nel 2025 il tribunale emette l’ordine di liberazione definitivo del casolare. La data è fissata per l’11 ottobre.
Ma nella notte tra il 13 e il 14 ottobre, mentre le forze dell’ordine entrano per una perquisizione — perché si sospetta la presenza di molotov e bombole di gas — avviene l’irreparabile: un boato squarcia il silenzio.
Il casolare dei Ramponi esplode.
Tre carabinieri muoiono sul colpo, altri rimangono feriti.
Maria Luisa viene estratta viva, ustionata, portata in terapia intensiva e piantonata.
Franco e Dino vengono fermati poche ore dopo, accusati di omicidio volontario premeditato.
La Procura valuta anche l’ipotesi di strage.
Gli inquirenti parlano di un atto deliberato. Secondo le prime ricostruzioni, l’abitazione era satura di gas e un ordigno rudimentale, forse una molotov, avrebbe innescato la detonazione.
Ma chi conosce la famiglia parla di disperazione, non di malvagità.
Una coppia di vicini li descrive così:
“Erano tre persone buone, ma chiuse, consumate dall’ingiustizia e dalla paura di perdere tutto.”
“Da tempo vivevano al buio, senza più acqua né calore. Non parlavano quasi con nessuno, ma non erano cattivi. Erano soli.”
Per loro, lo sfratto non era un atto civile: era la fine di una vita, il crollo di ogni certezza.
La tragedia di Castel d’Azzano non è un caso isolato.
Negli ultimi dieci anni, centinaia di piccole aziende agricole italiane hanno chiuso, sommerse da debiti, mutui e burocrazia.
Ogni giorno si registrano decine di sfratti esecutivi, anche in zone rurali.
La solitudine sociale e la mancanza di mediazione trasformano conflitti economici in drammi umani.
Il caso Ramponi è diventato un simbolo: della distanza tra le carte giudiziarie e la carne viva delle persone.
Un monito su cosa accade quando la legge diventa sorda alla disperazione.
Maria Luisa Ramponi, oggi ricoverata e sotto accusa, non potrà forse più difendersi davanti alle telecamere.
Ma la domanda rimane:
dove finisce la colpa individuale, e dove comincia la colpa di un sistema che lascia soli i più deboli?
Stefano Becciolini
Fonte:
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