Non è più questione di propaganda. È questione di macerie. Di quelle vere, che Jean-Pierre Filiu – storico e politologo francese, professore a Sciences Po e già diplomatico in Siria e Giordania – ha attraversato a piedi nella Striscia di Gaza senza riconoscere più nulla. Nessun punto di riferimento, nessun edificio familiare, nessuna strada rimasta. Un’intera città annientata – sistematicamente, metodicamente – mentre il governo israeliano nega l’accesso ai giornalisti e recinta la verità con il filo spinato della censura.
E ora è chiaro il perché. Perché chiunque metta piede lì dentro, ne esce cambiato. Perché vedere Gaza oggi significa vedere la fine dell’etica, la negazione del diritto internazionale, la vittoria della punizione collettiva come strumento di governo. Filiu, che in quella terra è stato decine di volte, oggi scrive di una realtà che non somiglia a una guerra ma a una distruzione scientifica: ospedali bombardati, bambini affamati che dividono cibo con i gatti randagi, orfani tra le rovine. E un messaggio per il futuro: “Gaza è un laboratorio”, scrive. E lo è. Un laboratorio dove si sperimenta cosa può diventare il mondo quando l’impunità si fa strategia, quando la legge viene sospesa e la compassione considerata una debolezza.
Israele lo sa. Per questo ha paura delle immagini, non dei razzi. Per questo tiene lontani i giornalisti: non per sicurezza, ma per controllo. Perché una foto – solo una – potrebbe incrinare la retorica della “democrazia assediata” e mostrare al mondo la realtà: non un conflitto tra pari, ma un castigo a cielo aperto. E allora chi guarda non potrà più voltarsi.
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