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October 26, 2025 2 mins
Il calendario segna tregua, il bollettino segna morti. Novantatré da quando la parola «cessate» è stata appesa ai comunicati: altri diciannove in quarantotto ore, mentre a Khan Yunis risuonano esplosioni e a Gaza City si contano i crateri. È il copione della pace scenica: le luci accese sul palcoscenico della diplomazia, il fuoco che continua dietro le quinte.
Sui cieli volano droni statunitensi per sorvegliare la tregua: se serve tecnologia militare per certificare la pace, vuol dire che la pace non c’è. Nel centro di coordinamento a guida americana entrano anche diplomatici e militari italiani: la nostra presenza dentro il dispositivo non cambia l’equazione sul terreno, ma la legittima.
L’umanitario resta imbavagliato. La Croce Rossa avverte che impedire l’accesso moltiplica il dolore, Emergency parla di reparti allo stremo. Finché i camion passano a singhiozzo e gli ospedali restano senza farmaci, la tregua è un ponte di corda su un baratro.
C’è poi la zona grigia che grigia non è: fonti mediatiche descrivono la costruzione di nuove milizie anti-Hamas sostenute da Israele e da alleati regionali. Se confermato, è la prova che si lavora alla guerra di domani dentro la tregua di oggi. Intanto l’ingresso di un team egiziano per recuperare resti di ostaggi racconta un’altra verità: la priorità politica sono i corpi, non la ricostruzione delle vite.
Fuori dalla Striscia, la Cisgiordania è un elenco di aggressioni contro i contadini in raccolta: i coloni devastano gli ulivi, i soldati presidiano gli accessi. Chi parla di “disinnesco del conflitto” dovrebbe guardare quei rami spezzati: lì si vede l’annessione quotidiana, senza bandiere né firme.
Oggi la parola che manca è responsabilità. Di chi bombarda durante la tregua, di chi ostacola i soccorsi, di chi arma nuove guerre per procura, di chi chiude gli occhi sulla Cisgiordania. Finché resta questo buio, la “pace” è una didascalia sotto un’immagine di macerie.

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