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November 20, 2025 1 min
Chissà se un giorno ci vergogneremo di avere visto passare un genocidio e dopo averlo ignorato abbiamo cominciato a chiamarlo tregua. A Gaza i numeri arrivano prima delle giustificazioni: 33 palestinesi uccisi, tra cui dodici bambini, in una serie di raid che il Qatar definisce «una pericolosa escalation» capace di far saltare l’accordo appena scritto. La “pax” imposta dalla diplomazia non regge più di un ciclo di bombardamenti.
Nel frattempo il lessico si muove. L’ambasciatore Usa Mike Huckabee parla di «terrorismo» riferendosi all’ultima ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania. È un fatto politico enorme. Ma subito dopo ridimensiona: li chiama «giovani arrabbiati», un modo gentile per non incrinare l’immagine del fronte che la risoluzione dell’Onu vorrebbe trasformare in architrave della nuova Gaza.
E mentre si discute di definizioni, il rapporto Framing Gaza mostra come la parola “terrorista” venga applicata ai palestinesi con una frequenza sistematica, mentre la violenza israeliana continua a essere incorniciata come autodifesa. La tregua, persino nel linguaggio, resta asimmetrica.
Sul fronte umanitario l’Oms riesce a vaccinare diecimila bambini in otto giorni. È una corsa contro il rumore dei droni: si inocula finché il cielo resta fermo, poi si chiude tutto e si aspetta. Le stesse ore consegnano nuovi piccoli morti dalle macerie di Khan Younis e Bani Suheila. Siringhe e bombe convivono dentro lo stesso calendario.
A Bruxelles il gruppo dei donatori discute la “ricostruzione” e l’Italia propone l’addestramento della futura polizia di Gaza fuori da Gaza. Si parla di sicurezza, mai di occupazione.
Non c’è una tregua da interpretare: ci sono fatti che continuano a produrre vittime, e un lessico internazionale che inseguendo gli equilibri finisce per ignorarle.

#LaSveglia per La Notizia

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